Le violenze contro i Rohingya nel Myanmar della signora Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace, secondo una commissione dell’Onu sono genocidio. E tra i colpevoli ci sono sei generali, compreso il comandante in capo dell’esercito nazionale, Min Aung Hlaing. Un anno esatto dopo l’offensiva che ha costretto a una fuga atroce verso il vicino Bangladesh almeno 700 mila Rohingya, le Nazioni Unite hanno pubblicato a Ginevra un rapporto che chiede il processo di fronte a una corte internazionale. E attacca anche Facebook per il ruolo giocato nella diffusione dell’odio contro la popolazione.
I Rohingya sono un gruppo etnico prevalentemente musulmano di un milione circa di persone, che abitano (abitavano) nel Rakhine, la regione più povera di Myanmar. Vennero dal Bengala (ora Bangladesh) ai tempi dell’Impero britannico delle Indie, ma non sono mai stati accettati dalla maggioranza buddista del Myanmar. Lo Stato non li considera cittadini e non garantisce loro né l’istruzione né cure sanitarie: «Oppressione dalla nascita alla morte», stabilisce la commissione di Ginevra. C’erano state ondate di violenza nel 2012 e nel 2016, ma quella cominciata il 25 agosto del 2017 è descritta come «una prevedibile e pianificata catastrofe».
Il dossier Onu chiama in causa anche Aung San Suu Kyi, che dal 2015 guida il governo civile del Paese: alla ex combattente per la libertà birmana è addebitato un silenzio impotente dettato dalla realpolitik, la sua volontà di arrivare alla riconciliazione con i militari che per anni l’avevano detenuta, la «rinuncia ad usare la sua autorità morale».
In questa situazione si è inserito il gruppo Arakan Rohingya Salvation Army, che si è radicalizzato e ora conduce una guerriglia. L’esercito ha giustificato l’offensiva nel Rakhine come reazione a una serie di azioni degli insorti. Ma secondo la commissione Onu, che ha raccolto prove e testimonianze nei villaggi dei Rohingya bruciati e bersagliati con armi pesanti, «le tattiche dell’esercito regolare sono state del tutto sproporzionate rispetto alla minaccia alla sicurezza». Soprattutto, «il livello dell’organizzazione della campagna militare, la scala della brutalità e della violenza, indicano un piano per la distruzione della minoranza che equivale al genocidio». Materia per la Corte penale internazionale dell’Aia.
Portare i generali del Myanmar alla sbarra di fronte al tribunale, come raccomanda il rapporto, non sarà però facile. Il Paese non ha sottoscritto lo Statuto di Roma che lo ha istituito e quindi servirebbe un voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove la Cina, che ha molti interessi nell’area confinante, potrebbe usare il suo potere di veto.
Il dossier presentato ieri è una sintesi di un lavoro durato mesi, 400 pagine di testimonianze sul fuoco indiscriminato contro i civili, stupri di massa, pulizia etnica. «I racconti che abbiamo ascoltato ci hanno marchiato per la vita», ha detto il capo della commissione, un ex magistrato indonesiano.
Il documento critica anche le Nazioni Unite, perché se il genocidio è stata la conclusione di decenni di soprusi sistematici nei confronti della minoranza musulmana, nello stesso tempo la comunità internazionale ha attuato una politica della «diplomazia silenziosa», fallendo nella difesa dei diritti umani. Una storia che si ripete. «L’approccio delle agenzie dell’Onu anche in Myanmar mostra pochi segni che la lezione sia stata appresa», conclude la requisitoria. In questa ricerca di colpe collettive è caduto pure Facebook: sul social network, tollerato o ispirato dalle autorità statali, ha avuto spazio l’odio contro i Rohingya da parte di predicatori di violenza. Facebook, osserva la commissione d’inchiesta, «ha risposto con lentezza e in modo inadeguato». Ieri Facebook ha annunciato di aver sospeso gli account di 20 persone e gruppi, compreso quello del generale Min Aung Hlaing.
articolo tratto da https://www.corriere.it