Roma, 1 feb – Tra i molti interrogativi che scaturiscono dalla notizia del colpo di stato in Myanmar (ex Birmania), ce n’è uno che interessa particolarmente chi ha a cuore la lotta per l’autodeterminazione del popolo Karen, etnia in guerra da oltre settanta anni con il governo centrale. Cosa succederà adesso? Cosa cambierà per i Karen dopo l’arresto del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi? La risposta non è semplice, come ogni previsione che riguardi questa parte del mondo, dove le astuzie dei Birmani e la capacità di attesa e di resistenza dei Karen, costituiscono elementi essenziali di una lunga vicenda dagli esiti indecifrabili. Di certo il movimento autonomista si troverà, finalmente, di fronte ad un obbligo di scelta: la vigorosa ripresa della lotta armata contro il Governo militare o la resa di fronte alle pretese egemoniche dello stesso.
Nessun vero patriota Karen piangerà per l’arresto della “Lady”, seducente icona per gli ambienti diplomatici e finanziari dell’Occidente, ma incarnazione di un nazionalismo birmano che, pur non arrivando allo sciovinismo della giunta militare, ha ignorato totalmente le istanze delle numerose etnie che abitano il Paese. La nuova situazione costringerà anche la debole leadership Karen a confrontarsi con una base sempre più delusa dagli esiti del cessate il fuoco firmato nel 2015, e con una ampia fetta delle formazioni armate che avevano fin da subito messo in guardia contro l’ingannevole politica birmana: l’utilizzo della tregua per occupare e militarizzare senza colpo ferire larghe aree della regione.
In aperto contrasto con i rappresentanti politici del movimento autonomista, spesso accusati di tradimento, i comandanti più carismatici delle truppe Karen, il generale Nerdah Mya e il Generale Baw Kyaw, non hanno di fatto mai smesso di fronteggiare gli uomini del Tatmadaw (l’esercito birmano n.d.r.) con imboscate e contrattacchi quando i soldati di Rangoon si avvicinavano troppo ai villaggi Karen. Negli ultimi mesi gli scontri si erano intensificati a causa dei frequenti bombardamenti di insediamenti civili da parte dei Birmani, che hanno lo scopo di costringere alla fuga gli abitanti e di “ripulire” le zone in cui verranno costruite strade di interesse strategico.
Il gioco dei generali al potere rimane quello di prima. L’unica differenza sta nella uscita di scena di Aung San Suu Kyi e del suo partito: un passaggio che renderà le cose più chiare anche a chi finora aveva sostenuto che ci si dovesse fidare delle promesse di Rangoon e che verosimilmente darà più peso alle posizioni intransigenti di Nerdah Mya e Baw Kyaw e favorirà alleanze militari tra le differenti etnie in lotta contro l’occupazione birmana. Questo è ciò in cui sperano migliaia di guerrieri pronti a battersi nella sconfinata jungla della regione Karen.
Franco Nerozzi
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